CALMA SPAVALDA

Arabeschi di luce investono l’ombra, più prodigiosi di meteore.
L’alta città inconoscibile si aderge sopra i campi.
Quanto a me, ben ferrato sulla vita e la morte, osservo gli ambiziosi e vorrei decifrarli.

Le loro giornate sono avide come un cappio nell’aria.
Le notti loro son tregua al corruccio del ferro, pronto ad aggredire.
Parlano di umanità.
La mia umanità sta nel sentire che siam voci di una comune indigenza.

Parlano di patria.
Patria è per me il fremito di una chitarra, qualche dagherròtipo e una vecchia sciabola,
l’orazione palese del salceto nel crepuscolo.


Il tempo in me sta pulsando.
Più taciturno della mia ombra, fendo la ressa della loro smaniosa cupidigia.
Loro sono imprescindibili, gli impareggiabili, i soli degni di un domani. Il mio nome è qualcuno e chicchessia.
Il loro verso è un imbonimento all’altrui ammirazione.

Io chiedo alla mia musa di non contraddirmi, ed è già molto.
Che non sia persistenza di bellezza, ma sì almeno di certezza spirituale.
Io chiedo alla mia musa che i cammini e la solitudine ne rendano testimonianza.


Piacevolmente oziosa la fede, procedo costeggiando la mia esistenza.
Procedo con lentezza, come chi arrivi così da lontano che dispera di giungere.

Da “Luna de enfrente”
Jorge Luis Borges